ALFREDO SIGNORI: LA PITTURA... QUASI UN DIARIO SEGRETO


di Elda Fezzi

Se ne parla raramente, ma Alfredo Signori è un pittore autentico che ha dato voce e figura ad una già annosa e ricca parabola di immagini: dal momento milanese degli “anni Trenta”, consapevole dell’aria più inquieta della giovane pittura (a fianco del movimento di Corrente di Vita giovanile, nella Milano di minoranza, quella di Banfi e di Persico, di Birolli e Badodi, Sassu e Migneco...), alle più recenti indagini ravvicinate ad un vasto universo di natura e d’arte, di materia e segni tesi a mutamenti e sviluppi linguistici ed espressivi. L’opera di Signori non è avulsa da un’osservazione puntuale del mondo circostante, compresi i nuovi media e la loro sconcertante intrusione nel campo dell’informazione e della comunicazione, e quindi prementi anche sul lavoro del pittore, del poeta. Signori è un pittore che mai si discosta da un’iconosfera filtrata in un accurato testo pittorico, ma neppure dal desiderio di conoscere e approfondire le situazioni e i mutamenti della psiche e della cultura moderna e contemporanea.
La vicenda del pittore è più ricca di svolgimenti di quanto non si sappia o si pensi. Eppure i cremonesi dei decenni passati si sono accaparrati i suoi dipinti, e se li tengono cari: erano soprattutto quei “paesaggi urbani” tratti dalle periferie “locali”, stilati dall’immediato dopoguerra fino alla fine degli anni ’50, in cui si travasava in sottili strutture un panorama reale, fatiscente, investito da un acuto sentimento del tempo: il silenzio attonito di un paese ferito, incerto nelle sue case rade e sbreccate, negli indizi di vita che riprendeva lentamente. La sequenza del “periodo grigio” ha fatto conoscere il pittore un poco più largamente, ma la vicenda artistica di Signori presenta altri e significativi scandagli.
A Milano, agli inizi degli anni ’30, prende avvio l’esperienza culturale più feconda per Alfredo Signori, pittore attento e vivo, quanto pensoso e appartato nella sua vita. L’attitudine al disegno e alla pittura, manifestata precocemente, si era nutrita già delle esercitazioni artigianali ai corsi dell’Istituto «Ala Ponzone» in Cremona, città dove è nato nel 1913. Apprezzato per la riuscita nell’indirizzo artistico dai maestri della Scuola, al termine della stessa, anche per consiglio del pittore Massimo Gallelli, amico del tutore dei fratelli Signori, restati orfani del padre medico, si decide per Alfredo la continuazione degli studi artistici a Brera.
Al Liceo Artistico di Milano il giovane segue i corsi regolari per quattro anni, dal 1929 al 1933, ottenendo il diploma. Qualche anno più tardi, nel 1936, tornerà a Milano per riprendere gli studi all’Accademia di Brera, allievo di Carpi e del suo assistente Gino Moro, per un certo periodo, interrotto per ragioni di forza maggiore; tuttavia tornerà a Milano tra il 1938 e il 1939, impegnato anche nel disegno pubblicitario per “gagner le pain”.
Sono anni di incontri e conoscenze personali di artisti e di opere che contavano già come espressione libertaria e polemica nei riguardi dell’arte accademica. Il periodo milanese rimane importante, per Signori, e se ne avverte il peso nelle prime opere, eseguite in quegli anni Trenta, appunto, che vedono in Italia il rinnovarsi, sia pure non emergente, quasi larvato e lento, di un bisogno di esprimere la voce artistica, la prospettiva estetica, l’ansia poetica, al di fuori e contro i condizionamenti della cultura ufficiale.
Già alla fine degli anni Venti, la sfera dell’arte affermata dal gruppo del Novecento era discussa o osteggiata da altre tendenze e talora con opposti argomenti (e opposte posizioni culturali, oltre che politiche). Ma dai più accaniti conservatori di una tradizione italica (che finivano col considerare il Novecento come un tutt’uno con le avanguardie e congiunsero Novecentismo e antifascismo (1)) e che negavano qualunque segno di apertura europea, si distinsero altri gruppi, minoranze di artisti, scrittori e filosofi in cui il senso più sottile e difficile di un’autonomia dell’arte si andava precisando come dissenso sia dal Novecento che dalle pretese di un’arte nazionalista, negatrice di ogni “esterofilia” e fornita dei caratteri di un’Italianità sui generis (che troverà una sua accademica codificazione nel “realismo” propagandistico del Premio Cremona, 1939-1941).
Da tali sfere «era ormai fuori fin dal 1929 il nuovo cosiddetto gruppo dei “6 di Torino” (Boswell, Galante, Chessa, Levi, Menzio, Paulucci) che non condivideva né l’arcaismo neometafisico né le posizioni politico-sociali di Sironi e dei sironiani; era fuori il gruppo degli espressionisti e degli astrattisti raccolti dal 1930 attorno alla Galleria milanese del Milione (Birolli, Sassu, Manzù, Fontana, Soldati e poi Guttuso, Veronesi, Reggiani, Licini), che rimproveravano ai novecentisti gli innumerevoli compromessi consumati fin dal loro sorgere a danno dell’“avanguardia” e della universalità e della libertà creatrice dell’arte; era fuori e ostile − infine − il gruppo degli espressionisti romani (Scipione, Mafai, Antonietta Raphael, Mazzacuratí), anch’essi dal 1928 in polemica col “Novecento” per la sua freddezza accademica e il suo relativo classicismo. Infine [...] era sempre rimasto estraneo al “Novecento” e a ogni consimile “ufficialità” il movimento di “Strapaese”» (2).
Per quella “tonalità emergente negli anni Trenta” (ribadita anche recentemente dagli studi sulla “polifonia” del decennio) (3) costituivano un esempio pittori come Semeghini, De Pisis, Garbari, Maccari, Morandi, Bartolini; artisti che non possono essere considerati in linea con le richieste di quella parte dell’intellighenzia del Regime che stava denunciando tutte le forme di “impressionismo” o di anticlassicismo che avessero qualche sentore di influsso straniero.
Signori, che ricorda pittori ed esposizioni che a Milano provocavano energiche recriminazioni e discussioni fra gli stessi artisti, avvertì chiaramente gli orientamenti più autonomi, soprattutto nella seconda metà del decennio, anche per la sua rinnovata permanenza a Milano nel 1936 e ancora nel 1938, quando il versante nuovo della cultura artistica e letteraria andava maturando le sue posizioni, usciva dai compromessi, dava lucidità alla polemica contro le velleità e le richieste della propaganda ideologica del partito al potere. I giovani artisti che si riuniranno nel gruppo di Corrente, da qualche tempo ponevano l’accento sulle possibilità di avviare in poesia e in pittura una nuova “discorsività lirica” come segno di autonomia dell’arte, anzi “autonomia estetica dell’arte” (Luciano Anceschi, 1936) (4) che era un problema non peregrino, edonistico, ma di prima istanza, di fronte alle forme di un verismo neoclassicheggiante in funzione elogiativa e pubblicitaria del regime socio-politico. Non erano tempi facili, e le stesse difese dell’autonomia dell’arte erano in difficoltà, sia teorica che pratica (e lo saranno anche in seguito, dopo il secondo conflitto mondiale) per l’imporsi di un accattivante “impegno” sociale dell’artista, inteso come efficiente produttore di immagini “utili” alla educazione nazionale secondo la catechesi dominante.
Non va dimenticato, poi, che l’operazione condotta dagli Istituti di Cultura Fascista e dalle organizzazioni politiche seppero far funzionare con un certo dinamismo le strutture atte ad attrarre gli operatori culturali, pittori, scultori, architetti. I giovani artisti, anziani agnostici e liberi potevano partecipare ai Littoriali, alle Sindacali, Arti Decorative, Biennali, Quadriennali...
Ciò non toglie che alcuni artisti e critici vedessero con sempre maggiore chiarezza lo svolgimento nel senso di un nazionalismo gretto, retorico e trionfalistico di certa pittura, scultura, architettura, e che ne sentissero la vanità e l’estraneità. E comunque gli anni ’30 segnalano una crescente presa di coscienza di ciò che si pretendeva da parte dell’accademismo ufficiale, e di ciò che poteva e doveva essere, invece, l’espressione più aperta e libera dell’artista.
Ora, per la prima volta, in questa ampia “personale” abbiamo la possibilità di conoscere meglio l’iter del pittore, a cominciare appunto dai primi anni ’30. E ci si accorge subito come le più salde opere di Signori puntino verso quelle visioni e concezioni che si potrebbero definire con le parole di Birolli, di un Badoli (compagno di studi di Signori, al Liceo artistico braidense), di Persico, il portavoce più vivo e affinato della cultura innovativa in quegli anni, di Sandro Bini, sottile critico. Si parlava delle “ragioni dell’istinto poetico” e al tempo stesso di “intelligenza critica del […] rapporto [del pittore] con un orientamento di storia”. L’“accensione lirica” dei poeti, a cui si riferirà più volte Birolli nei suoi importanti scritti di quegli anni, veniva ricercata da lui, come dagli altri pittori intenti a ricuperare una spiritualità dell’arte, nello “scandaglio della nozione colore” e nelle sue “lancinanti proprietà”. Ma, si badi, quella “nozione” non era riduttiva, aspirava bensì ad essere il fondamento della pittura liberatoria, come la parola poetica intesa in una nuova ampiezza di analogie e di risonanze. Per Birolli valeva la grande lezione dell’Impressionismo (come per Lionello Venturi e per Edoardo Persico) esperienza con la quale “ogni piano illanguidiva
a svantaggio della caratterizzazione plastica dei singoli elementi” e “veniva costituendosi un piano fenomenico al di là della tela...”. Ma “l’Impressionismo (scriveva Birolli nel 1936) non è sceso a compromessi antichi e moderni tra linea e colore. Ha affidato a quest’ultimo tutta la responsabilità di rieducare la linea dello spirito”.
Colore era emozione, spiritualità, antidoto al monumentale.
Diversi dipinti eseguiti da Signori negli anni ’30 sono andati distrutti, ma ciò che possiamo leggere in quelli conservati e nelle riproduzioni fotografiche è di importanza rilevante, sia per la loro relazione con certi moventi culturali “aggiornati”, sfiorati dall’ampliamento della visione in senso europeo (e non “autarchico”), sia per l’impronta personalizzata, l’interesse per una tematica che permette di “esprimere” l’emozione e l’inquietudine, l’esperienza autobiografica, la riflessione intima e lo scavo psicologico. Aspetti tutt’altro che legati alle mode passeggere o all’arte ufficiale, alla categoria dell’arte come “produzione efficiente” che veniva vincendo nelle mostre promosse dalla autorità al governo.
Ai primi anni ’30 risale anche un dipinto che rimanda ai temi sportivi graditi in ambito littorio, d’altronde affrontati da molti pittori, tra i quali Carrà. Nuotatori, del 1935 (quadro distrutto) è già sintomatico di un trattamento che tende ad inesilire il volume, a far slittare le forme verso l’area “espressionista”, con affinità alle orme di un Sassu (i Ciclisti del ’33). Tale orientamento si precisa nel 1936 (Signori ha 23 anni), anno del Bambino in lutto, che ha anche la portata di una memoria autobiografica, la perdita del proprio padre (che risaliva al 1929); e dell’Autoritratto, scavato da una luminosità inquieta.
Nel Bambino in lutto, la figura si ingrandisce e si allunga in una sorta di ricordo argutamente “manierista”, ritagliata quasi con durezza; il fragile torso del ragazzo avviluppato nella giacca troppo ampia e rigida, distinto dalla striscia funebre che pesa, vistosa, sulla manica. La testa piccola e squadrata, le labbra strette in una smorfia di compunta tristezza; gli occhi fissi spauriti e cerchiati, fatti d’improvviso adulti. Un ritratto pungente e inameno, che tra l’altro propone un’idea anticipatrice, con quell’accostamento oggettivo (e formale) con la fotografia del padre dipinta accanto alla testa dell’adolescente. Inserto piuttosto raro all’epoca, come non tanto diffusa era pure quella lucida impaginazione della figura, struttura sensibile alla meditazione su un momento infelice dell’esistenza. Nel dipinto, che vediamo solo in fotografia, punge un piglio di scoperta indagine psicologica e l’attenzione a narrare la condizione umana con una certa crudezza d’occhio, con impietosa verità, quasi ponendosi in vicinanza con l’esperienza della “nuova oggettività”, che reimpiegava con acribia, in area tedesca, valori plastici accesi dalla vampa aspra, “espressionista” del principio del secolo.
Un insinuante cangiantismo nei colori strappa la figura alla sua immobilità. La tendenza a far fermentare il nodo figurale in un più mobile flusso coloristico è ancora più visibile negli Oggetti e nell’Autoritratto eseguiti nel 1937. Nel primo dipinto le “cose” appaiono sciolte da pose e appiombi di stampo “classicheggiante”. Gli oggetti sono disposti (per modo di dire) lungo un immaginario piano obliquo; sono sparsi, piuttosto, abbandonati quasi casualmente, presi in una scia di luce.
Signori non ha scritti ma dipinti e disegni, e bisogna leggere attraverso questi il suo lento ma sicuro accostamento alla pittura che potesse avere una sua autentica capacità di rivisitare la storia, gli esempi del passato, con la forza dei sentimenti dell’uomo attuale, e non forzato da situazioni di servilismo e di malinteso conservatorismo. La scelta dei temi, lo stesso interesse per le infiammate rispondenze del colore, sono lì a testimoniare l’attenzione per situazioni di vita, stati esistenziali e ripercussioni intime, tutt’altro che schiave di facili ottimismi o di esaltate gesta nazionaliste.
La stessa scelta dei temi “poveri”, il paesaggio, la natura morta, il ritratto di sé (che rivela non la perfezione ma l’inquieta solitudine dell’uomo, dell’artista), le figure solitarie di vagabondi e musicanti, singole o a coppie, calate nella vita della strada, nei treni operai, mostrano uno sguardo diretto sull’ambiente comune e socialmente dimesso, penoso, talora rivelato nel più squallido degli angoli urbani, nel meno riparato scompartimento di terza classe, nel più sconnesso e frusto gruppo di oggetti sparsi in un oscuro angolo di cucina. Il pittore stesso appare di frequente, corpo macilento e sparuto, occhi febbricitanti, negli Autoritratti che Signori ripete ogni anno, quasi a verificare la persistenza di pensieri ossessivi, la fragilità e la tenace sopravvivenza dell’individuo nell’essere sé stesso in mezzo al prepotere di costrizioni massificanti.
Quel “dolore poetico” di cui parlava Birolli penetra nei ritratti di sé eseguiti da Sassu, Guttuso, Mafai, Badodi, Carlo Levi e da altri pittori e scultori fatti più critici ed emotivi, inquieti e ribelli in un tempo di assurde pratiche disciplinari.
Le qualità del giovane Signori venivano sottolineate già nel 1936 da un cronista anonimo che in un giornale lombardo lo segnalava alla II mostra Sindacale Cremonese come “giovane artista di possibilità eccellenti”, verificabili in “tre lavori di ottime ricerche”.
Più esperte del linguaggio artistico e critico erano le osservazioni di Alfredo Puerari (allora un attento critico militante, divenuto, poi, il maggior storico dell’arte operoso in Cremona) che nel 1939, recensendo la III Sindacale di Cremona, coglieva le “autentiche qualità pittoriche” di Signori. E nell’analisi, sia pure forzatamente breve, pubblicata ne L’Ambrosiano di Milano (6), toccava acutamente uno degli aspetti più precisi della morfologia irregolare, sensibile di Signori già in antitesi netta con il volume novecentista. Puerari sottolineava infatti, nell’opera di Signori, insieme con le “possibilità di colore e di luce, sia pure con crudezze e sensualità in un senso e nell’altro...”, la “gracilità di disegno”, intendendo la struttura formale come contenitore un poco distinto dall’impasto cromatico, e un poco fragile rispetto “all’accesa sensualità del colore turgido di succhi ed emotivo”.
Tale lettura di un giovane pittore della fine degli anni ’30 è tra le più penetranti dell’epoca, anche per quanto riguarda quella definizione di “gracilità” (di disegno), termine (e concetto) che solo più tardi sarà ben inteso come carattere espressivo della pittura di Corrente, opposto alla smania di grandiosità e robustezza, atletismo e plasticità magniloquente, che spingeva i pittori ufficiali verso spiccata volumetria e monumentalità. Proprio quella singolare “gracilità” penetrata al tempo stesso da un fermentante colorismo, si apriva ad una nuova sensibilità ed era una caratteristica significativa dei dipinti eseguiti da tutti gli antinovecentisti: dai Sei di Torino ai pittori di Corrente, e della Scuola romana, ai chiaristi.
La distanza dalle grandiosità volumetriche neoclassicheggianti, e dal verismo ottocentesco o fotografico si misura anche nel Suonatore di mandolino (1938) “dai coraggiosi verdi e turchini su uno sfondo rossiccio” (Puerari) che avvampano la figura, ne traggono guizzi inquieti. Anche l’appuntarsi sui temi di persone anonime, viste nell’attonita fatica del vivere, rivelate nel grugno grottesco-doloroso, figure immerse nella fanghiglia esistenziale, come l’attenzione alla “natura morta” e al “paesaggio”, all’autoritratto afflitto e spettrale, era già una scelta. La devianza dai modi richiesti dalle accademie si precisava poi nella più scoperta fermentazione della materia pittorica, meno levigata e statica. Nello scompiglio luministico, nella scrittura lampeggiante della figura, che assumeva talora un andamento curvilineo, spiralico, talora primitiveggiante e popolaresco, si avverte il bisogno di portare in superficie la reattività del soggetto-artista partecipe pensoso ed emotivo, teso all’espressione di certe verità impietose, non conformiste.
Esile, spettrale, come emergente da un fondo nebbioso è l’Autoritratto del ’38 (distrutto) che fu accettato ai Premi di Brera, a Milano, dello stesso anno. Ne rimane una foto fanée che denota tuttavia la partitura di luce sulla figura smilza, il torso magro, il volto concentrato e spiritato, gli occhi freddi accesi da una strana fiamma. Pur nel tessuto unitario, si avverte una fine causticità nella resa della figura emblematica dell’artista. La figura è resa con essenzialità, ma non nasconde una complessità psichica, rivelatrice come una sindone della vita fisica e artistica del giovane, della sua carica nervosa che domina la fragilità psichica e la risolve in una misteriosa tenacia. La figura è situata come nel fondo di uno specchio che riceve scarsa luce; il fantasma umano non è tutto visibile, comprensibile; una parte entra nell’ombra, e ne rende più misteriosa la presenza. Sono i dipinti che testimoniano di una crescente adesione di Signori allo spirito tormentato e critico della condizione morale dell’uomo e dell’artista che vive in una situazione di conflitto e ne ha una viva coscienza, muovendosi nel senso della verità, fuori da ideologie estranee, da temi che impongono un’adesione alla propaganda partitica o al mercato della “produzione efficiente”.
Nel ’39 Cremona inaugura il suo Premio con i dipinti rappresentanti la Famiglia italiana che ascolta alla radio il discorso del Duce. Signori non partecipa e l’anno successivo invia un dipinto al Premio Bergamo, sentendo assai più congeniale il tema di “Due o più figure umane legate insieme da un unico tema compositivo”. Il suo dipinto Uomini in treno è accettato al II Premio Bergamo da una prestigiosa e severa giuria. È un intenso dipinto, ancora conservato nello studio del pittore e oggi visibile nella recente pulitura eseguita da Felice Abitanti. La composizione, vagamente memore di un affine dipinto anni Venti di Virgilio Guidi, è più fortemente accesa, puntata a svelare i segni di una umanità storpiata dalla fatica, tutt’altro che emblema di ottimismo, in quella fisiognomica alterata − e vera − fino al caricaturale, al grottesco.
Signori esemplificava una situazione usuale e carica di anonimia esistenziale, intensificandola attraverso la materia cromatica, accesa nei verdi, bluastri e viola, striati di lampi giallastri, sulfurei, sottolineando l’espressione dei corpi e dei volti.
Il dipinto ha una certa grinta, poco patetico e più aggressivo, con l’eco della pittura critica, “neo-oggettiva” d’oltralpe, non senza raccordi con Strapaese, il Viani, Maccari.
Le scelte della giuria del Premio Bergamo si fondavano “sul riconoscimento, non tendezioso né polemico ma criticamente motivato, di un ordine di valori artistici”, così si legge nell’introduzione al catalogo della rassegna del Premio tenuta nel novembre-dicembre 1940 nel Palazzo della Permanente di Milano. La giuria era composta da Giulio Carlo Argan, Leonardo Borgese, Achille Funi, Ottone Rosai, Bruno Saetti, Enrico Paulucci, Giuseppe Montanari, Carlo Prada, Ettore Gianferrari, Fausto Brunelli. Giulio Masseroni, Giulio Pavoni.
Aveva preso in esame 535 opere di pittura, di 374 artisti, e ne aveva “accettate per la mostra 107 di 95 artisti con uno scarto dell’ottanta per cento circa”, come recita la “Relazione della giuria” (7).
I maggiori premi in palio erano andati a Mario Mafai, a Donato Frisia, a Renato Guttuso (che ebbe, a differenza dei primi due, una “votazione all’unanimità”). Ebbero premi ex aequo anche Attilio Alfieri, Domenico Cantatore, Piero Martina, Ernesto Quarti, Giovanna Nascimbene Tallone. Inoltre, il Ministero dell’Educazione Nazionale per “premiare opere di particolare merito” acquistava il quadro Estate di Francesco Menzio (dei Sei di Torino), “ed a titolo di incoraggiamento” il quadro Mattina di Albino Galvano e la Composizione di figure di Armando Pizzinato. Nella giuria mancava Carrà, assente per malattia. Tra gli artisti che componevano la rassegna apparivano “fuori concorso” Luigi Bartolini, Massimo Campigli, Carlo Carrà, Felice Casorati, Giorgio De Chirico, Filippo De Pisis, Achille Funi, Virgilio Guidi, Arturo Martini, Cesare Monti, Enrico Paulucci, Ottone Rosai, Bruno Saetti, Pio Semeghini, Gino Severini. Nella sala VI figurava il dipinto del cremonese (unico) Alfredo Signori.
Diversi erano dipinti lirici e pensosi, dove un’umanità fragile e malinconica si vestiva e svestiva nelle stanze del quotidiano affanno. Apparivano frequenti scene di “mascherate”, “carnevali” veglioni”, con personaggi ludici, grotteschi, figure e cose che tenevano una linea estetica leggera e disimpegnata (che sarà pure subito denunciata come agnostica, inutile e deleteria da parte degli organizzatori del Premio Cremona). Erano dipinti in cui più vibrata appariva la materia colorica, e la libertà della forma traspariva nei fermenti di matrice post-impressionista; o nelle pausate e delicate figure femminili, nelle scene di clowns e di giocolieri che ricordavano le meditazioni metafisiche precedenti alle esibizioni del Novecento. Fragilità, dolcezza di valori cromatici, spazi di colore-luce ben dosati, e anche le debolezze formali di taluni dipinti facevano quasi da struggente antidoto ai quadroni “impegnati” apparsi al Premio Cremona del ’39 e del ’40, ed eseguiti da oscuri maestri, professori di disegno nelle Accademie, più disposti ad intonarsi, d’altronde, con le richieste del concorso “famoso” (bisogna pur dirlo).
Il distacco ancor più accentuato da plasticità gonfiata e monumentale si manifesta nelle opere che Signori va eseguendo tra la fine degli anni Trenta e i primi del Quaranta, dopo i contatti rinnovati con il più vivace ambiente milanese. Dal ’37 fino allo scoppio della guerra, vive nel capoluogo, frequenta lo stimolante cantiere della Triennale, lavora come designer pubblicitario accanto ad Alfieri, amico di Badoli, Migneco, Motti, Ravazzi e dello scultore Vaccarini con il quale divide lo studio in viale Piceno.
Alcuni dipinti del ’40-’41 testimoniano una maturazione di pensieri e modi di eccezionale altezza di tono, controllatissimi e pur colmi di fermenti. Alcune Teste di vegliardi padani sono esempio di un equilibrio sorprendente fra storia e realtà del presente. Un umile padano pare un antico profeta dugentesco o bembesco calato dalle “neiges d’antan”, dagli ori e dalle aureole sacre per essere scarna e dignitosa presenza umana, sparsa l’antica barba al sole pallido e prosaico delle spiagge fluviali di giorni più aspri, brechtiane e popolari, disertate da miti e dai riti aulici; gli occhi trafiggenti e consapevoli. La dignità umana e filosofale dell’emarginato è lì, ancora penetrante nel volto del vecchio, ben lontano da certe crude e slogate figure del realismo moderno dei padani. Quasi indescrivibili, quelle Teste di vecchio, sono finissimi tracciati di piume coloriche che sanno filtrare vivacemente l’esperienza “impressionista”, e al tempo stesso contendere con la freschezza di un De Pisis, quanto a leggerezza e precisione di pennellata. L’intonazione è dosata sui chiari, ma l’atteggiamento è colto in una sorta di tensione che si collega alla natura umana, alla psiche dell’uomo espressa nell’acuta fissità e profondità dello sguardo. Anche nel più pacato dei dipinti di Signori non manca una nota di singolare espressione, uno spirito di osservazione penetrante nella “figura”, sia esso un volto, sia essa un oggetto, sia esso un caseggiato. E va attribuito a quella sua iniziale comprensione delle necessità espressive della pittura più viva, più consapevole dei problemi del tempo anche la sottile emotività che penetra, sostiene come un filo esile e resistente, nella sequenza più pacata degli anni a venire, nelle “nature morte” e “paesaggi”, nelle vedute-visioni urbane rarefatte e chiare, intessute di luce grigia e legate ad una monocromia che echeggia pagine di Braque, di Morandi o del Sironi più lucido e scarno. Saranno i “paesaggi” degli anni Cinquanta a rendere più nota la pittura di Signori nell’entourage cremonese e padano anche se quella calma nuova, quel discorso più pausato e magro sarà da vedersi non come un approdo definitivo, ma come uno di quei lunghi e assaporati cicli meditativi che contrassegnano il percorso del pittore cremonese.
Dagli anni Cinquanta ad oggi nell’opera di Signori si distinguono sequenze, battute di ricerca e di quasi ossessivo reportage. L’occhio esplora un tema e la mano ne trae continue e sorprendenti variazioni.
Prima di giungere a quella distesa e pur severa trama del “paesaggio urbano” in cui il dopoguerra immediato si fa attonito silenzio, sparuta periferia che riemerge lentamente tra i grigi-neri dei ruderi, gli intonaci spellati e calcinati, con le ultime scritte minacciose che scompaiono, e le prime pubblicitarie che riprendono, se ne hanno preannunci in altre immagini di originale composizione, in cui lo spirito acutamente sensibile e suscettibile dell’artista acquista e svela insolite caratterizzazioni.
Spicca nel 1942 il sorprendente ritratto di Due fidanzati, così teso tra autoritratto e comportamento collettivo, costume sociale. Le due figure, prolungate nella testa e nel dorso, sono la pungente deformazione (quasi caricaturale) di una posa classica (da foto-souvenir). I profili si fronteggiano, quasi araldici, ma snodandosi come convolvoli grevi e pencolanti, spiralici sul cielo vaporante, sull’orizzonte incerto di una sparuta fila di case cittadine. La gamma cromatica è finissima nei passaggi, e quasi stridula, più che squillante, con gli azzurro-rosa finemente illividiti, non privi di lampi sinistri. La presenza umana è tutt’altro che morta e statica e levigata da vane bellezze. È lì, invece, intrisa di pessimismo e verità, con le figure glabre e spaurite in un’aria quasi diaccia. Il dipinto sarebbe piaciuto non solo a Birolli e a Mafai, ma anche ad un Kokoschka, ad un Grosz, anche se il suo umore umano è più tenero e la cromia più dolcemente filata. I paralleli più vicini sono forse Carlo Levi, qualcosa di Paulucci, di Menzio, ma lo spirito che vi si agita è più carico di malessere, di pungente ironia, oltre che di un gusto narrativo poco comune.
Dello stesso tempo, che vediamo più fortemente acceso nei colori, nei timbri contrastanti, nell’agitazione della forma che viene scossa dall’emozione, sono le Nature morte con Fiori (esposto alla IV sindacale di Cremona), con Peperoni roteanti su un piano obliquo, quasi trascinati da acqua e vento, la cui soluzione è talmente sciolta e vibrata nella frequenza e fragranza dei tocchi, delle striature, da riuscire uno dei più intensi dipinti di quegli anni. Come De Pisis, per la frenesia continua che persegue questo brano di “natura” sorpreso in un ronzio senza fine; con la maggiore gravezza dei tratti di pennello, che sfiorano il drammatico fremito di una scossa sismica. A questa foga succederà un’apparente calma in altre immagini degli anni successivi − nei Vecchi oggetti del 1941 o 1942 e nei Vecchi oggetti del 1946 −. Mentre gli oggetti si presentano ancora più sparsi, dislocati in uno spazio non chiuso, non prospettico, ma delimitato da zone di colore leggero e preciso, la Natura in posa è unita nei toni e in quella levità delle impronte, più che dai volumi, degli oggetti familiari, vecchie bottiglie, imbuto, ferro da stiro, boccale.., che paiono evocare l’umiltà esemplare impressa nelle cose (per illuminare quella dell’individuo, dell’uomo-artista) da pittori come Derain, Morandi; ma al tempo stesso si svitano dalla concentrazione più “antica” e profondamente stagionata di quei maestri, per esprimere un altro “stato d’animo” e un’altra visione: più slittante, precaria, consapevole di un tempo più irrequieto, di un disegno più labile delle cose, anche se quella loro posa cheta sembra ricordare momenti d’arte che sublimano in valori storici e pacati tutti i tormenti e le incertezze del presente: l’immediato dopoguerra.
È un severo “paesaggio” tagliato nella zona del Morbasco, corso d’acqua che corre tra case vecchie e alberi alla periferia di Cremona, ad esser segnalato al Premio Nazionale di pittura Cremona, nel 1949 (8); apprezzato da una commissione di esperti dello stampo di Francesco Arcangeli, Umbro Apollonio, Felice Casorati...
Le case sghembe, o la luce che macchia lievemente un tratto di Cortile rustico, con le sagome di un ambiente storico non ancora del tutto cancellato, con alcuni segni di architettura povera ma antica, dignitosa nei suoi portalini, finti archi, si snodano in dipinti sommessi, dove il colore si intride di scarna luminosità e di certi silenzi d’angoli urbani deserti ma acutamente assaporati. Con estrema attenzione l’occhio meditabondo riflette in una trama di ocra e calce, le persiane sconnesse, i vetri opachi, il poco d’erba che cresce stenta al pallido sole del cortiletto, davanti alle case leggere, sbiancate da un timbro di primavera lenta ma tenace.
È lo spirito che Signori va esprimendo dalla fine degli anni ’40 e i ’50, dopo un periodo di studi e di interessi per l’esperienze europee di nuovo riproposte nel dopoguerra, e aperte più vivamente al rinnovamento del linguaggio e della visione. Tra la pittura più libera e fragrante degli anni Trenta e Quaranta e questa pittura così spaziata e fatta di “paesaggi” chiari, ma talora resi in schegge cubiste, è passata un altra fase di ricerca, di curiosità intellettuale e manuale, quasi un desiderio di vedere più chiaro attraverso la struttura delle cose e riguadagnare alla pittura una “ragione”, una razionalità, uno sguardo più penetrante nei frammenti di un paesaggio appena liberato dal rombo della guerra.
Signori ha riflettuto anche sulle esperienze di Picasso, di Modigliani; provando e riprovando altre soluzioni figurali. Stanno a testimoniarlo alcuni disegni e pastelli con Teste e Gruppi di figure tracciate in sintesi, rapide e ben delineate, dove il contorno è tutt’altro che decorativo o di superficie. È linea energetica che scava lo spazio e mette in risalto i nodi formali fondamentali, rendendo con nitidezza ed essenzialità volti, corpi, oggetti.
Studi, esercitazioni, prove, verifiche non mancano mai nel percorso di Signori, che è un artista del “dubbio”, della tensione di partecipazione alla continua ricerca.
Agli ultimi anni ’40 e ai primi anni ’50 risalgono quei tagli paesistici “grigi” affidati a traiettorie visive fondamentali, in cui il pittore coglie soprattutto l’ossatura geologica, la parte costruente della veduta. Così nel dipinto, Po, ponte, gru del 1950 vengono utilizzati elementi quasi astrattivi (schemi geometrici), ma essi sono legati al paesaggio stesso, sono parte di questa riva fluviale ridotta a blocchi, deserta e ferrigna. L’essenziale struttura di una zona padana su cui si affacciano le costruzioni dei “canottieri” o di uno scorcio della campagna col Morbasco, emergono, in alcuni dipinti del ’51, con una trama serrata nella distribuzione dei toni cerulei e grigi, evocando con particolare fermezza più stringate visioni metafisiche, già peraltro smosse, liberate in un disegno più realistico e freddo. Nel Morbasco del ’51, olio su tavola, un alberone a schema piramidale si spinge verso il centro del quadro, quasi perno di una visione cosmologica resa per elementi architettonici, cui corrispondono altri alberi-colonne più lontani, sopra argini-muri, pioppeti-cerniere, come se un poco della concezione geologica di Cézanne fosse penetrata nella salda e piatta tessitura delle sponde padane, e il pittore ne avesse inteso (con una soluzione-non certo frequente in “ateliers” italiani, troppo spesso e troppo presto dichiaratisi debitori del gran maestro di Aix-en-Provence) l’intenzione di sintesi. Bisogna aggiungere che, se risulta assai interessante anche quella attenzione colta, quel coraggioso svolgimento verso una struttura quasi di “cubi” (o meglio di “cilindri, sfera e cono”, ch’erano le strutture più gradite ai cubisti) ci affascina soprattutto il modo in cui Signori riesce a rendere nel dipinto l’equivalenza delle masse di un luogo, il suo insieme più concerto, con una interpretazione radente alla zona padana. È la fase in cui si avvertono i dati di una buona indagine sulla pittura “post-impressionista” e astratta, filtrata poi nella calibrata e scarnificata estensione dello spazio, nella intensità di luce che racconta di argini e moli padani; relata, dunque, alla verità “locale”.
Sono i paesaggi come Po al mattino, del 1952, Periferia con omino, del 1953, Spazio, del 1956. È poi memorabile una sequenza che ci par di dover considerare tutta in un tratto unico, in un insieme più alto e folgorato: quella delle “periferie
del 1956-1957.
Già il Porto sul Po è una massicciata protesa sull’acqua glauca, uno spuntone di banchina padana che orienta l’occhio al profilo leggero e nebbioso del lungo ponte e alla distesa del fiume, vuota, vasta, tacita nel grigio carico di lucori.
Non si può tralasciare l’accenno a quel lucido dipinto intitolato Distruzione (del 1956) che fu accolto al Premio Michetti del 1957. È il più deciso passo di Signori verso una oggettività realistica già sottilmente presa dal contagio di un panorama urbano divenuto fragile quinta, coincidente con sistemi e messaggi dei mass media, evocati anche dalle scritte sui muri diroccati, i ruderi dei bombardamenti, coperti, imbellettati dai manifesti pubblicitari. La castigata gamma dei grigi e bianchi e la secca descrizione dell’abitato alto e solitario in cui si perdono omini e biciclette, fa comprendere come Signori abbia acuito una sensibilità che non si serve di accentazioni “neorealistiche” troppo grevi e polemiche, ma che va scoprendo i modi di una partecipazione assai più intima e raffinata all’ambiente urbano e umano, al senso desolato e patetico dell’orrido post-bellico, dello squallore periferico. A volte si fa quasi vicino alla visione secca e bruciante di un Ben Shahan, sia pure tinta di una blanda luminosità, da pensieri meno duramente aggressivi. Qui non è l’angolo di un ghetto ebraico sconquassato, ma un brandello assolato e nudo di povera periferia italica che al sole si ritempra, lentamente si rimargina, e l’aria che circola fra le scaglie murarie pare già diventare colore di nuove speranze. Per quella sequenza − che occupa tutti gli anni ’50 e oltre − si potrebbero precisare i rapporti con più attonite visioni della precedente poesia: la composizione si dilata in zone silenti e vuote, le case si allungano verticali e spente, le strade paiono luoghi in abbandono, abitate da macchine e trenini fermi, da omini solitari. Ma il tempo che scorre in questi spezzoni di paesaggio indugia sul loro costrutto precario, vago e graffiato, già distante dalla forma eterna della pittura “metafisica” e più vicino alla sorte incerta delle costruzioni recenti, rase dalla guerra, e poi di quelle di una ricostruzione stenta e fatta su in fretta. Quelle forme e quel colore emettono sensi assai chiari dell’epoca in cui sono stati eseguiti. La fragile quinta dei caseggiati, gli angoli defilati dei cortili sono lo spazio della città vera, le sue strade e i suoi lembi di erba rada, le case in serie, gli opifici rari, così gli strumenti di lavoro...
“Finita la guerra, dice Signori, ricordavo ancora le sensazioni, le emozioni vissute a Torino, sotto i bombardamenti, quando ci mandavano fuori di notte.., e c’era quel paesaggio a blocchi.., e per dieci anni ho vissuto il paesaggio come geometria di solitudine, non so, quegli spazi vuoti.., come in attesa, in pericolo...”.
Il peso del “neorealismo”, allora in via di affermazione con i suoi contenuti dichiaratamente “di lotta”, qui si fa meditata contemplazione-partecipazione e richiama piuttosto certi “paesaggi urbani” di Sironi (in particolare alcune tempere e bozzetti più spogli del 1954-55). Ma la tonalità è più calibrata sui toni grigi sfocati, nei corsi d’acqua cerulei, nei profili-spigoli percorsi da una grafia meno plastica; una trama scarnificata e tremula, come una apparizione dubbiosa, consunta e pur nitida. La sintesi non brucia del tutto il respiro dell’aria, la modulazione delicata della linea, del tono; come nel racconto di un Pavese. Mentre la periferia di Sironi era quella della grande metropoli lombarda, cresciuta in fretta e a dismisura, con grattacieli tetri, alveari fitti e asfittici, tarati d’ombre grevi e sbilanciati da incerte situazioni di fondamenta; quella di Signori svela in sintesi i frammenti di una borgata più rara e marginale, con i suoi fragili edifici rifatti, sparsi mozziconi di piccoli edifici artigianali-industriali, qualche raro congegno meccanico, e quella pur inquietante desolazione dell’angolo di provincia, fatiscente, sparso, percorso da brividi di solitudine. Signori ne dà una sensibilissima facies: tanto da riuscire anche oggi un lettore acuto di quegli anni, della condizione di spirito del pittore-poeta che, pur non aderendo a programmi polemici, gridati, manifestanti, vede ed esprime l’autentica situazione dell’ambiente provinciale in cui vive, in cui si vive, in gran parte del mondo.
In questa seguenza “grigia” − che potremmo quasi definire un reale-poetico affresco di “Cremonenses Graffiti” − lo scandaglio di Signori sta in equilibrio fra l’osservazione oggettiva (di stampo realistico) e una più temperata, stringata pittura che affida alle sue proprietà interne, alla “composizione” autonoma, il compito più penetrante, pungente; e infatti tende a divenire quasi metonimìa, forma responsiva, significante duttile e di per sé capace di indicare una verità critica del panorama urbano, delle giunture precarie delle costruzioni nella città del dopoguerra. A ben guardare, questi paesaggi hanno una quiete apparente, vibranti invece di quell’intima percezione del limite oscuro dell’immagine esterna, illusoria, e quindi dell’estrema relatività del dato oggettivo, che si invera, se mai, proprio della tessitura nervosa, incrinata, cosciente, emessa dal pittore-uomo non assente dai problemi del sociale affanno.
La tessitura di Signori può passare da una rarefazione squisitamente astrattiva, all’intensificazione più densa dei tratti costruttivi. Mai peraltro si è privata del contatto visivo e psichico con ciò che ha intorno, con ciò che più osserva e da cui più è stimolata. Una trama d’alberi-segnali di stagione quasi prolungati all’eccesso come una griglia emergente, sottilmente espressiva e oppressiva, al limite dell’invenzione visionaria più allucinata, investe quelle immagini rarefatte dell’Inverno del 1958, le cui nervose grafie si spingono anche nei disegni e nelle tele più denuncianti degli anni Sessanta-Settanta.
Venivano dopo le “periferie”, ne erano la continuità, lo sviluppo accorto, e forse una prima liberazione, quasi che nella tensione al controllo tonale e timbrico, costruttivo-compositivo delle “periferie”, Signori avesse fatto aggio sulla volontà, su un comportamento castigato, teso e sperimentale. D’altra parte, già nei dipinti dell’estate e dell’autunno del 1957, più carichi di sottese accensioni cromiche, Riomaggiore alle Cinque Terre, e Settembre, si osserva una espansività diversa, un crescente interesse per l’ispessimento dell’immagine, i suoi tempi-spazi a frequenza più alta, per la varietà del colore e degli umori-effetti luminosi che accelerano e arricchiscono il tessuto visivo-tattile. Il richiamo è, per quei dipinti, ad una vicinanza con la vena lirico-fantastica di un Mafai (certi suoi tetti romani precedenti e coevi) e con la presenza (più che con l’opera, che ormai diveniva folgorante amorfismo delle “vigne” dall’alto) di Renato Birolli, anch’egli tra il 1955 e il 1957 sprofondato in quella sorta di Bretagna italica che è il monte-mare delle Cinque Terre.
A ben guardare, anche nelle immagini dell’Inverno − diversi dipinti di collezione privata cremonese e di proprietà dell’artista − l’energia del segno grafico si manifesta in una variazione di ispessimenti e rarefazioni, fino a far sentire un crescendo drammatico dell’immagine, che in qualche tela diviene allusiva di luoghi tutt’altro che “naturalistici”: i tracciati nerastri di tronchi e flabelli vegetali si arruffano, aggrovigliano, mettono spine sinistre, ricordano gabbie di filo spinato, alberi d’impiccati. A questo Inverno del 1959 seguono altri disegni e dipinti di “paesaggio” che va oscillando tra una riduttiva summa di analisi-sintesi e una più smagliata e porosa resa della coltre materica, che l’altronde non era mai stata trascurata nei dipinti precedenti, perfino nel più incisivo e secco degli Inverni, in cui da dietro la siepe quasi ferrigna di tronchi altissimi, lunghi, smisurati, e bruciati dal freddo (o da qualche catastrofe bellica ed ecologica?) il cielo, sfogato sulle case basse, sulla periferia di baracche incerte nella nebbia, palpitava, mosso e spiegazzato, percorso da continui soffi e ombre e brividi di una stagione instabile e inquietante.
Parlo di quelle singolari caratteristiche della pittura di Signori − dagli inizi fino ad oggi, alla più articolata e smagliante pittura degli ultimi anni − che paiono tutte appartenere ad una “natura” degli esterni, ad una meteorologia stagionale, ai luoghi visitati e osservati “en plein air”, e che invece sono (o al tempo stesso sono) infestate dall’Ombra psichica (direbbe Jung), emanazioni inquiete e inquisitorie di uno spirito attento, all’erta, estremamente complesso e disposto ai traumi come alle acute analisi; per cui la naturalezza, la semplicità, la calma sono conquiste ardue; e non sono mai state neppure mete fisse e approdi tranquilli. Come Cagli, come Birolli, anche Signori mostra continuamente la propria ansia di cercare altro, di comprendere altro da quello che sa, convinto innanzi tutto che molto ci resta sempre da apprendere e scoprire e sviscerare con le nostre poche o tante energie.
Negli ultimi vent’anni le esplorazioni, le scoperte, le sorprese che la pittura di Signori ci riserba sono continue. C’è la straordinaria espansione vegetale-informale tra la fine anni ’50 e i primi del ’60; dipinti e pastelli in cui un sentimento panteistico prende vigore tramite una freschezza nuova della materia.
Il pittore ci rivela altre risorse della sua immaginazione, oltre che della sua “curiosità” intellettuale, e degli stimoli che egli ha saputo ricevere dall’esperienze europee più accese degli anni Sessanta. Dico del nuovo ingolfarsi e intensificarsi della percezione di natura-materia nei dipinti tra la fine del ’50 e i primi del ’60, neppure in ritardo sulla scoperta italiana della raffinata “art autre” o “informel”, di certi esasperatissimi e macerati pittori irregolari, come Fautrier e Wols, letti in Italia alla fine degli anni ’50, appunto da Francesco Arcangeli, in particolare, che qualche anno prima era andato difendendo anche la versione più nostrana di quelle esperienze europee e d’oltre oceano, e prendeva le difese dell’ultimo naturalismo (9) in Italia, illustrando passionatamente la “ricchezza della situazione italiana” anche nel 1956, fermandosi sulla pittura di Morlotti, Moreni, Vacchi, Mandelli, e dei più giovani Peverelli, Paolucci (Dario, il toscano) e qualche altro. Come se si precisasse anche una sorta di azione liberatoria da una castigatezza mentale e fattuale, una freschezza e uno slancio nuovi si avvertono nel ciclo delle “stagioni” eseguite da Signori nel decennio ’60: un fervore quasi febbrile espande rami e fronde; anzi, un crescente macchiato vegetale che conserva naturalità e fragranza di natura e pittura; non è mai, beninteso, soltanto l’una o soltanto l’altra: è l’una che travasa nell’altra, perdendo la crudezza di una realtà qualunque o confusa, e acquistando quella qualità dell’espressione, del colore trattato dal pittore, dalla sua interna combustione... la pittura appunto.
Un’esuberanza quasi nuova sgroviglia questi dipinti che ampliano e fanno rigermogliare brani di natura reinventata come sapevano ancora desiderare di fare gli “ultimi naturalisti” lombardi ed emiliani, qualche europeo non immemore del fortore e calore della propria etnia, della propria “località”; qualche americano meno bruciato per eccesso di combustione e di esasperazione “gestuale” furiosamente lirica, magmatica, come fantasia anti-tecnologica, anti-meccanicistica.
Colori di stagione e fasci di ramificazioni, dettagli ingranditi, grandi macule con l’intonazione della Primavera, dell’Estate, dell’Autunno, dell’Inverno, non stanno più limitati dal riquadro della tela; tendono a scorrere in sensi liberi, quasi incontenibili, anche se memori di materie naturali e seguiti con dosaggio sempre accorto di pause e slanci, dei toni, dei ritmi. Quella capacità di equilibrare il fremito intenso e continuo della materia pittorica è la stessa che si era già pienamente manifestata nelle Nature morte e nelle Teste di vecchio di vent’anni prima. Nei più vasti cumuli e condensazioni e rarefazioni di “materia e memoria” che prendono abbrivio nella stagione anni ’60, Signori non manca di ampliare i suoi interessi per una rinnovata ricognizione sia nell’universo naturale che sul versante dei mezzi, dell’apparato linguistico e strutturale, e ne cava una varietà di ritmi, di posizioni a-formali, ma tese sempre a trattenere il tessuto pittorico al di qua della totale dispersione e cancellazione delle analogie con gli organismi o le formazioni dell’universo naturale. D’altronde non c’è mai in Signori una frettolosa o spericolata imitazione di mode, e neppure la caduta nelle insulsaggini di uno pseudo-naturalismo di bassa lega. Le sue risposte sono di grande interesse per la loro sollecita reattività e la chiara operazione di filtro che oppongono agli stimoli dell’ambiente “locale” e di quello, più complesso, dell’arte internazionale, o sovranazionale.
“Nel suo anacoretico esercizio di ininterrotta ricerca, Signori è, infatti, per natura e maturate convinzioni, estremamente attento al travaglio circostante, esposto al più alto grado di controversi messaggi del nostro tempo lacerato dalle più acute contraddizioni; dotato di antenne sensibilissime, egli capta i più impercettibili segnali − e non solo di ordine estetico − del disagio contemporaneo”, ha scritto Mario Balestreri nel 1975 (10).
Tra gli anni ’60 e i ’70 Signori mostrava un’attenzione sempre più acuta alla pittura di materia, al senso del “gesto” come possibilità di ottenere una traccia degli impulsi inconsci. Questa fase è un’altra viva esperienza, che servirà ad arricchire i successivi contatti con il “particolare” di alberi, rocce, muri dai quali egli sa spremere altre mirabili notazioni. Forse è il periodo più denso di lavoro (gli anni maturi lo vedono anche più disponibile per la pittura, dopo aver lasciato l’insegnamento che durava dal 1940).
Non manca di accendersi di nuova apertura analitica e critica la fase post-informale, per così dire, cui Signori dà il via tra la fine degli anni ’60 e i primi del ’70; le vegetazioni gremite e frementi emettono spine e brandelli di organismi lacerati. Il groviglio si lacera e appesantisce di resti umani e meccanici, come in quelle visioni di incidenti di cui è prodiga ormai la strada e la città; e da cui sono martellati e colpiti gli occhi e le menti di tutti tramite i media di massa. I dipinti dell’ultimo decennio meriterebbero un’analisi accurata: si vedano, intanto, in questa rassegna alcuni esempi che − se mostrano il contatto con i metodi di un arte di assemblaggio tra pittura e collage, pittura e immagini pubblicitarie, “pop” (olari), schemi di manifesto, cartoon, spazi sezionati in linea con soluzioni pubblicitarie e televisive − non perdono quel tono di meditata critica, di cauta elaborazione del materiale ai fini di dare il segno, l’impronta della riflessione propria del narratore, del poeta. Signori è partecipe della vita e delle sue tragiche immagini di morte, di terrore. Segnala con acume le violente, disarticolate immagini che giungono a fiotti, sovraccariche o spietatamente appaiate (il paesaggio e il relitto umano, il muro usuale e l’inferriata di un carcere...) e coglie le profonde contraddizioni del mondo contemporaneo. Non senza avvertire le difficoltà di scelta nella sovrabbondanza di materiali, segnali messi in atto dalle molte emittenti di messaggi, giornali, schermi, onde radiofoniche. Il pittore sente la seduzione di sollecitazioni diverse e divaricate dell’immensa massa di informazione; e soffre la sempre più ardua possibilità di scegliere e di parlare − e rappresentare − la nostra risposta, la nostra parola o immagine “in difesa”, o come attiva presenza critica, ironica, capace di cogliere presagi diversi e contrari, in nome della libertà umana e della sua coscienza profonda di un a-venire meno maligno del passato e del presente.
Le recenti “fisionomie” disegnate e dipinte da Signori documentano anche la ripresa della “figura” dell’uomo, cominciata dal ’70 in poi. Alcuni dipinti sono apparsi alla galleria «R. Botti» nel ’75, così commentati da Mario Balestreri: “Sono volti che i rotocalchi hanno trasformato in ‘merce’, espressioni di personaggi emblematici, al più alto livello della nostra epoca (Sartre, Lukàcs, Nenni, Beckett, ecc.) segni fisici, incarnazione della coscienza del nostro mondo [...]. A riscattarne l’intima dignità della mercificazione dei flashes fotografici, Signori giunge attraverso l’adozione di tecniche della più recente figuratività (iterazione, moltiplicazione dell’immagine) e il recupero di procedimenti del futurismo (compenetrazione, scomposizione e ricomposizione, simultaneità), suggerendo una ‘quarta dimensione’ che non è più, come nei futuristi, il tempo fisico, ma il tempo del dialettico divenire della storia” (11).
Per l’energia degli accenti critici, di protesta, o almeno di forte indice di impatto col mondo della violenza contemporanea, Signori mostra di non restare estraneo ai problemi di una visione più drammatica dell’umano e del sociale. Pur vivendo e lavorando in provincia, non è assente da una fervida posizione dialettica con altre proposte ed esperienze, ma sa rimanere libero da imitazioni e ricopiature, perché non si può mai ritrovare nelle sue opere una ripetizione di moduli altrui; se mai, qualche assonanza di senso con pittori come Guerreschi, Ferroni, Banchieri... Ma, appena se ne sono pronunciati i nomi, già ci si accorge che l’estro di Signori passa per altre vie, si snoda secondo una propria trama.
E nei recentissimi cicli egli ritorna a dar vita ad una straordinaria messe di meteorologie e mineralogie cavate da indagini dirette sulla natura e sull’architettura, trasformando il materiale trovato in secrezioni e concentrati di pittura che lasciano sorpresi per la nuova bellezza della materia pittorica e per l’insolito (ancora una volta) èmpito dell’immaginazione.
Alle varietà bellissima di gherigli e madrepore, alle estensioni di “torba nera”, alle ramificazioni degli anni ’60 sembrano ricongiungersi le vegetazioni, i muri, le larve brulicanti degli ultimi dipinti. Ora si tratta di scrosci continui di forme rocciose, indagati con minuzia e sapienza di colore. Si susseguono i cicli dei “tetti”, dei “muri”, delle colline macchiate, folgorate, striate come mappe di una terra ignota, qui di nuovo esplorata.
“Uso anche la macchina fotografica, dice, per fermare certi dettagli… come per esempio per i muri di sassi che ho visto alle Cinque Terre, grigio e nero...”. I pezzi recenti sono “in presa diretta”, ma tutti inseguiti dal pittore con una qualità pregnante del colore, e i particolari delle cose ritornano in questi inquadri come in un “trompe l’oeil” spettacolare e trasognato. Apparentemente pacato, il lavoro di paziente rifinitura e di calcolata partitura compositiva (come è apparso tutto il lavoro di Signori). Ma il brano pittorico mette in vista una sorte di inquietata misteriosa ricchezza materica,
organica della terra, delle cose che stanno vicino e intorno: fino a sentirne una pressione fisica e intima, fino a scoprirne la trama arcana di bellezza e di corruttela, di splendore e di decadenza. Come se ad ogni sguardo un poco più profondo tutto rivelasse quell’inestricabile fusione di vita e di morte che preme così vivamente a chi matura precocemente in sé il dolore, e verifica dentro di sé una sensibilità acuita. E Signori è stato sempre un pittore di fortissima tensione, pronto agli impulsi e anche al meditato tracciato selettivo. È certo che la sua parabola non termina qui, e anzi le opere ultime paiono dare tutti i sintomi di un magistrale ampliamento di indicazioni, attraverso la diversa fragranza di sguardi, di scoperte e prelievi; di nuovo preso tra1’osservazione più radente al motivo e la scioltezza dei modi di riproporlo, mai dispersivi anzi concentrati in fatti di luce, di colore, di poesia narrativa tra le più singolari della regione lombarda. (Elda Fezzi)

 

(1) Il Novecentismo come antifascismo è il titolo di un violento scritto da G. Sommi Picenardi contro la V Triennale di Milano, 1933. Il marchese era il critico d’arte del Regime Fascista, giornale diretto da Roberto Farinacei ed edito in Cremona. Il testo è pubblicato in La Vita Italiana, Roma, anno XXI - Fascicolo CCXLVII - ottobre 1933 - XI, e ne facciamo cenno per la sua connessione con l’ambiente cremonese e per il tono particolarmente “isterico” del discorso che l’autore pronuncia contro tutta l’arte moderna italiana ed europea (il maggior imputato è l’Esprit nouveau di Le Corbusier), senza risparmiare alcuna delle presenze artistiche apparse alla Triennale, negando ogni valore alle opere esposte (erano presenti i maggiori architetti europei, Wright, Sant’Elia, Mendelsohn, Mies van der Rohe, Pagano...) maltrattando gli autori degli affreschi (erano Carrà, Cagli, Campigli, Usellini); le opere degli scultori (ed erano Manzù, Arturo Martini e Marino Marini!). Il testo non è privo di una lucida denuncia dei casi di esterofilia, che collimano per l’autore con pericolose manovre di Kultur-bolschevismus, di massoneria, di ebraismo “che (si aggiunge) il regime hitleriano combatte con la severità più strenua e decisa”. Il Sommi Picenardi ripeterà le stesse denunce nel 1936, in polemica con l’architetto Pagano, nella sede della Triennale successiva.
(2) C. MALTESE, Storia dell’arte italiana (1785- 1943), Torino, 1960.
(3) R. BARILLI, Perché gli anni Trenta. Introduzione al catalogo della mostra “Anni Trenta, Arte e Cultura in Italia”. Milano, Palazzo reale, 1982.
(4) L. ANCESCHI, Autonomia ed eteronomia dell’Arte, scritto tra il 1933 e il 1936, ristampato in Progetto di una sistematica dell’arte, Milano, 1962. “La ‘nozione’ di un’autonomia dell’arte, scrive Anceschi, assumeva particolare rilievo nella situazione morale e civile in cui l’arte e la letteratura (non solo in Italia) si trovavano a vivere”.
(5) R. BIROLLI, Primo Taccuino, 3 (marzo-aprile 1936), in Taccuini, Torino 1960.
(6) A. PUERARI, La Sindacale a Cremona, in L’Ambrosiano, Milano, 31 ottobre 1939. A. Puerari scriverà dell’opera di Signori anche in anni successivi. Nel 1947, in Fronte Democratico sottolinea un altro aspetto del comportamento dell’artista: “La coscienza e la volontà di stile in lui aspirano ad una intellettuale purezza”. Si può anche parlare di un fecondo sodalizio “umanistico” fra il giovane storico dell’arte e il giovane pittore, con uno scambio di pensieri che dovettero essere importanti per ambedue, e si manifestavano in particolare sintonia soprattutto negli anni ’40 e ’50, quando il critico, fornito di una larga e profonda preparazione di matrice longhiana, coglieva nell’opera di Signori quella “tersa chiarezza” (che era eco di colore-luce e forma-colore di Piero della Francesca, filtrato in epoca moderna soprattutto da Morandi). Ed è un’altra precisa definizione del Puerari quella applicata ai paesaggi del periodo “grigio”: “paesaggi del silenzio”.
Sono note le polemiche fra L’Ambrosiano e il Regime Fascista nel campo artistico. Il maggior imputato (da parte del gruppo farinacciano) era Carlo Carrà, critico d’arte del giornale milanese dal 1922 al 1939.
(7) Secondo Premio Bergamo. Mostra Nazionale di Pittura, anno XVIII, Milano, nov.-dic., anno XIX, Palazzo della Permanente. Catalogo della mostra del II Premio Bergamo tenuta nel Palazzo di via Turati, Società Permanente di Belle Arti. Il nome di A. Signori è segnalato nella sala VI, con la riproduzione del dipinto Uomini in Treno.
(8) Nella Mostra Nazionale del ’49, la prima organizzata a Cremona con criteri tutt’altro che provinciali, il cui maggiore promotore è stato Alfredo Puerari, la giuria era composta da Umbro Apollonio, Francesco Arcangeli, Felice Casorati.
Il dipinto di Signori, n. 48, suscitò i commenti favorevoli dei critici (in particolare G. Biazzi Vergani, M. Monteverdi). La veduta di periferia veniva definita da G. Biazzi Vergani in La Provincia come “lavoro veramente notevole” in cui “il cielo, le acque, gli alberi non sono che varie sfumature di una medesima atmosfera poetica...”. Nella rassegna figuravano opere degli artisti cremonesi di diverse generazioni: gli “anziani” Biazzi, Busini, i più giovani Sartori, Pastorio, Baroschi, Piroli, Balestreri, Misani, Bergamasco, Cordani; i cremaschi C. Martini, Fayer. Tra gli artisti provenienti da altre città apparvero in Cremona per la prima volta Luigi Bartolini, Mario Tozzi, Carlo Corsi, Enrico Paulucci; un bel gruppo di “chiaristi” Del Bon, De Rocchi, Lilloni, Spreafico... e ancora Piero Martina, Tornea, Lanaro, Ciangottini, Chiti, Nobile, Zigaina, Perizi, Pedrali, Mandelli...
Non è stata una rassegna “famosa” in Italia, ma nella nostra città sono passati parecchi anni prima di poter vedere ancora un simile complesso di opere di buona e ottima arte nazionale esposte in sala pubblica. La mostra era organizzata dall’E.P.T., ed allestita nel Palazzo dell’Arte.
(9) F. ARCANGELI, Gli ultimi naturalisti, in Paragone, n. 59, novembre, Firenze, 1954.
(10) M. BALESTRERI, Alfredo Signori, Introduzione Catalogo della personale di Signori alla Galleria «Renzo Botti», Cremona 1975.
(11) M. BALESTRERI, op. cit.

 

ALTRI CRITICI HANNO DETTO DI LUI
Un giovanissimo, Alfredo Signori, rivela autentiche qualità pittoriche...
Il Suonatore di mandolino dai coraggiosi verdi e turchini su uno sfondo rossiccio è dimostrativo delle sue possibilità di colore e di luce, sia pure con crudezze e sensualità in un senso e nell’altro, a scapito ancora del carattere e della figura, ch’è pur quello che l’interessa e ch’egli già coglie con coscienza profondamente stilistica.
ALFREDO PUERARI
(Ambrosiano - 31 ottobre 1939)

 

La coscienza e la volontà dello stile in lui aspirano ad una intellettuale purezza. Con un rigore formale spontaneo e composto, le impressioni vive e liriche della realtà appaiono tradotte in un linguaggio ben personale. Nel colore e nella luce egli cerca ora una relazione d’armonia e di compenetrazione, lasciando al disegno un suo compito d’ordine architettonico, un ruolo d’astrazione. Così è nello «Studio», poetico e razionale: il colore è alieno da abbandoni impressionistici, ma si liricizza nei rabeschi del tappeto, si purifica nella luce d’ogni peso inerte di materia pittorica, rifugge dall’esibizione dell’impasto. C’è nella pittura di Signori la calma d’una contemplazione pensosa. Si vedano gli oggetti quotidiani della «composizione»; quanta umana simpatia e come nobilitate quelle semplici cose comuni; e questo per la levità non scoperta della stesura sensibile agli avvolgimenti della luce per niente dimostrativa, così rientrata nel colore-forma. Riconosciamo in questi due dipinti il superamento di certi stilismi precedenti e che lo furono per il disegno, la luce, il colore in modo, allora, piuttosto unilaterale; mentre ora la loro sintesi li semplifica, sino a rarefarli in una tersa chiarezza.
ALFREDO PUERARI
(Fronte Democratico - 25 gennaio 1947)

 

La Finestra aperta e l’Autunno son due ottimi dipinti d’autentica espressione poetica, tutta tradotta in essenzialità pittorica semplificatasi nel caratterizzare le cose e la loro atmosfera d’intimità. L’elaborazione della trama cromatica è precisa, tenuta da rapporti di colore non occasionali, ma come sospesi e contemplati, meditati, significativi spiritualmente. Immagini evocate del sentimento, c’è in esse un respiro umano e cordiale, che domina la severità e l’accuratezza dello stile, ne fa dimenticare l’impegno. C’è vita interiore in questi due paesaggi del silenzio, specchio di solitudine consolata e placata nella coscienza delle cose e delle abitudini umane che ne sono la loro storia, la vera poesia. Nei Fidanzati lo stile è più dichiarato e impegnato, con energia nel fissare e isolare due caratteri su uno sfondo arioso di paesaggio: e se nella figura virile la definizione plastica del colore all’indagine della luce ha fratture e compiacimenti dispersivi e frammentari che ne lasciano incerta e analitica la definizione, in quella femminile Signori ha raggiunto una delle sue espressioni più personali e belle, per limpidezza luminosa di colore, per tensione, senza fratture, del disegno.
Il luminoso e pittorico incarnato, la violenza del colore dell’abito, la piena e dolce massa dei capelli s’impongono con violento stacco plastico, tutto svolto in un cromatismo non esteriore, rientrato nella forma, sensibilizzatissimo sino a darci il senso tattile della materia.
ALFREDO PUERARI
(Fronte Democratico - 4 luglio 1947)

 

I suoi interni, le sue finestre, le sue tendine sono l’espressione della tristezza e della gioia di vivere nella visione di quegli ambienti che la sua fantasia crea, e a cui possiamo riportarci vedendo, da parte nostra, le figure che animano e che abitano l’interno di quelle finestre.
È, la sua, una comunicazione di un’anima sola, che però invita all’intimità. E la forma lo sorregge nell’impegno, negli accordi felici dei marron e dei grigi che svelano l’incanto triste e segreto dei suoi irraggiungibili rifugi, mentre la luce si spiega con la vibrazione tenue e fredda dei primi mattini di primavera.
GIAN BIAZZI VERGANI
(La Provincia del Po - 29 giugno 1947)

 

Alfredo Signori riappare dopo un lungo silenzio; vogliamo sperare sia il preludio ad un
più aperto disvelarsi, poiché le sue doti di poesia e le sue qualità stilistiche ci sembrano
intatte; le tre Periferie ch’egli presenta, non sfigurerebbero affatto nella parete riservata alla «collezione Mattei».
MARIO MONTEVERDI
(La Provincia - 5 luglio 1956)

 

Gli spettacoli delle sue periferie esposte in questa luce così quieta, se rammentano angoli morandiani, hanno una particolare linearità nervosa e stringente che sembra alludere, con patetica ironia, ad una solitudine disincantata e forse amara. Case e cortili sembrano alzarsi quasi per gioco, su linee pencolanti, e tuttavia esperte, su cui si distendono colori opachi, ma studiati con tenerezza e pazienza.
ELDA FEZZI
(La Provincia - 18 febbraio 1959)

 

La pittura di Signori si colloca complessivamente al punto d’incontro fra quelle istanze di esatta perfezione ideale che nell’astratto hanno trovato la loro estrema manifestazione e il richiamo ad un senso della realtà di impronta espressionistica (per quanto anacronistici possano a tutta prima apparire tali riferimenti nel proliferare di “ismi” e di avanguardismi del secondo dopoguerra, ci pare che essi continuino a rispecchiare le linee di forza e le tendenze profonde di un’arte che non ripieghi sul masochistico vagheggiamento della propria “morte”). Posizione rara e difficile, quasi impensabile se non la riscontrassimo realizzata nella produzione di questo singolare artista.
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Nel suo anacoretico esercizio di ininterrotta ricerca, Signori è infatti, per natura e maturate convinzioni, estremamente attento al travaglio circostante, esposto al più alto grado ai controversi messaggi del nostro tempo lacerato dalle più acute contraddizioni; dotato di antenne sensibilissime, egli capta i più impercettibili segnali − e non solo di ordine estetico − del disagio contemporaneo.
Beninteso, egli non ha mai inteso programmaticamente fare dell’astrattismo o dell’espressionismo; ma è tuttavia nella dialettica fra queste orientative che ci pare si possa ravvisare un metro di chiarimento del suo discorso.
Se ci si volge alla precedente stagione creativa (il “periodo grigio”, fra il 1947 e il ’60 circa) quella cioè che lo ha fatto conoscere ed apprezzare, si potrebbe assai genericamente parlare di pittura di paesaggio, col pericolo di un equivoco che non è estraneo ad una certa sua fortuna (limitata peraltro entro una cerchia ristretta di estimatori): quello derivante dalla richiesta del “naturalistico”. L’attenzione al dato “naturale” concorre bensì in certa misura alla maturazione di quelle figurazioni (case, argini, piante; la terra di nessuno fra città e campagna; la secchezza grafica di una ringhiera contro le pareti scialbate; lo spettro di un vetro di finestra; e i muri − la vita segreta e la consunzione delle superfici intonacate, la loro virtù di trattenere o rifrangere la luce −); ma, al fondo di questa attenzione agisce un impulso volto ad evidenziare l’esattezza di moduli e ritmi − linea, superficie, spazio − un fervore di perfezione geometrica, l’esigenza di cogliere la struttura, il razionale principio d’ordine nel visibile reale.
Questa tendenza alla perfezione dell’astratto si accompagna tuttavia a un congenito ritegno di fronte alle soluzioni integralmente pure dell’astrattismo storico, cioè al rifiuto di un edonismo di segno contrario a quello − pure consapevolmente respinto − di un abbandono alla fruizione sensuale del dato visivo naturale. “Naturalismo astratto”, quindi, o − se si vuole − “astrattismo naturalistico” che è poi quanto dire né astrattismo né naturalismo: sono etichette − approssimative come tutte le etichette − che possono tuttavia suggerire il nucleo di fondo della precedente ricerca di Signori.
MARIO BALESTRERI
(Dal saggio introduttivo alla mostra, tenutasi a Cremona, presso la «Galleria Botti», il 25 gennaio 1975)

 

... Signori è un autore non mai pago dei suoi risultati, sempre alla ricerca di nuovi mezzi e modi di espressione. In realtà il suo comportamento è distinto piuttosto per la continua sollecitazione sperimentale, operativa e intellettiva, con manifestazioni che hanno avuto talora lunghe soste meditative alternate a scatti e slanci. Soste di elaborazione che meriterebbero più ampia pubblicazione come i dipinti del primo tempo espressionista degli anni Quaranta...
Erano i dipinti con i quali egli partecipava alle rassegne del «Premio Bergamo», una storia tutta da fare in rapporto con certi sintomi di “resistenza” artistica, mimetizzata ma fermentante, che vi apparivano. E Signori ha continuato, nella sua successiva pittura, a rinnovarsi entro la temperie di quella “accentuazione espressionistica”, anche quando sembrava castigare quei lampi nei paesaggi chiari e squadrati. Poi li riprendeva, questa volta caricati da una acuta percezione di valori materici, nei dipinti sostanziati di pure variazioni cromatiche, in analogia con spazi organici, vegetali e minerali. Un “periodo” che Signori ha vissuto senza ritardi, in parallelo con l’epoca colma dell’“informale” italiano ed europeo tra il 1958-’60 ed oltre; lo stesso magma visuale e psicologico investiva poco dopo singolari grovigli di figure e filo spinato, di rottami ferrigni e fango.
... Recentemente si è provato anche nell’adozione di tecniche della più recente figuratività e va elaborando una serie di fisionomie di personaggi emblematici al più alto livello della nostra epoca (Sartre, Lukács, Nenni, Beckett ecc.). L’aspra grafia, la tecnica mista, la inquieta e instabile colorazione vi esprimono una esasperata radiografia emotiva di marchi esistenziali psichici, allucinati. Probabilmente e già l’avvio di un altro tormentato e intenso ricercare sul tema.
ELDA FEZZI
(La Provincia - 4 febbraio 1975)

 

Con la scomparsa di Alfredo Signori viene a mancare una delle ultime figure di quel ricco e significativo mondo artistico cremonese che si era venuto formando alla vita ed alla cultura verso la fine degli anni '30, poi nella terribile esperienza della guerra e della miseria nazionale e infine nella lotta di Liberazione e nel grande slancio della ripresa post-bellica e della ricostruzione: così si è espresso il sindaco di Cremona Gian Carlo Corada nel suo blog alla notizia della recente scomparsa dell'artista.
Un sentimento condiviso dall'amico di sempre Sergio Tarquinio, e dal presidente dell'associazione Cremona Arte Giuseppe Termenini, che hanno l'intenzione di creare un movimento promotore al fine di allestire una mostra per onorare la figura dell'artista, la cui ultima antologica, inaugurata dall'allora Presidente della Provincia Corada, risale al 1999 durante la Festa dell'Unità.
Alfredo Signori è stato un pittore autentico che ha dato voce e figura a una ricca parabola di immagini: dal momento milanese degli anni Trenta, consapevole dell'aria più inquieta della giovane pittura a fianco del movimento di "Corrente di Vita Giovanile" - Banfi, Persico, Birolli, Sassu e Migneco - fino ad accostarsi all'osservazione del mondo circostante. I suoi paesaggi urbani tratti dalle periferie locali, dipinti nell'immediato dopoguerra fino alla fine degli anni '50, in cui riversava in sottili strutture un panorama reale, fatiscente, investito da una precisa percezione del tempo. Le sue tele rappresentavano il silenzio stupito di un Paese che ancora ricordava le ferite della guerra, incerto nelle sue case rade e con i muri sbreccati, ma con anche qualche indizio di ottimismo di una vita che lentamente andava riprendendosi.
Sergio Tarquinio lo definisce: La sua espressione artistica era un lavoro intimo, ma che coinvolgeva tutti. Era, Signori, uno degli ultimi grandi maestri che dipingono con il pennello, un vero animatore culturale. Sognava un'Italia governata dalla cultura, e anche un europeismo che doveva recuperare le più vive aspirazioni della provincia italiana per elevarle a dignità europea, ma salvaguardandone l'autonomo valore culturale.
Elda Fezzi definiva la pittura di Signori “quasi un diario segreto” che dovrebbe essere oggi, nel momento in cui si assiste ad una valorizzazione dell'arte contemporanea, patrimonio della città; un paio di opere di Signori sono custodite presso il museo civico Ala Ponzone; una tela raffigurante Riomaggiore dall'alto fa parte della collezione della Fondazione Città di Cremona, mentre gran parte della sua feconda produzione è affidata alle eredi e ai collezionisti privati.
L'esperienza culturale che ha dato i maggiori frutti per Alfredo Signori prende il via a Milano agli inizi degli anni Trenta; il suo percorso formativo inizia a Cremona (dove nasce nel 1913) frequentando i corsi dell'Istituto cittadino Ala Ponzone dove manifesta la sua precoce attitudine al disegno ed alla pittura. Su consiglio del pittore Massimo Gallelli, amico del tutore dei fratelli Signori, rimasti orfani del padre medico, Alfredo continua i suoi studi artistici all'Accademia di Brera dal 1929 al 1933 ottenendo il diploma. Tornerà a frequentare Brera nel 1936 allievo di Carpi e del suo assistente Gino Moro e poi ancora tra il 1938 e il 1939 si impegnerà nel disegno pubblicitario. Il periodo milanese è molto importante per l'artista e se ne coglie il peso nelle prime opere eseguite in quegli anni Trenta che vedono in Italia il rinnovarsi, seppure nascosto e lento, di una necessità di esprimere la voce artistica al di fuori e contro il condizionamento della cultura ufficiale, un antagonismo tra l'accademismo ufficiale e ciò che poteva e doveva essere, invece, l'espressione più aperta e libera dell'artista. Ai primi anni Trenta risale un dipinto, di cui si conserva oggi solo la fotografia, che rimanda ai temi sportivi graditi in ambito littorio: Nuotatori; Signori successivamente distrusse il quadro per rimanere in linea con la sua coerenza artistico-politica.
L'artista si discosta dai temi cari al regime scegliendo temi 'poveri', il paesaggio, la natura morta, l'autoritratto - che rivela non la perfezione classica bensì l'inquieta solitudine dell'uomo, dell'artista -, le figure solitarie di vagabondi e musicanti, singole o a coppie, immerse nella vita della strada, nei treni operai, mostrando uno sguardo diretto sull'ambiente comune e socialmente dimesso. Il suo Suonatore di mandolino (1938) è in questo senso emblematico. Nel '39 Farinacci inaugura il Premio Cremona, Signori non partecipa, l'anno successivo invia un dipinto al Premio Bergamo di Giuseppe Bottai; l'ideatore del Premio Bergamo è lo stesso gerarca che fece applicare nelle scuole e nelle università le odiose leggi razziali, ma in ambito artistico era liberale. Bottai era decisamente avverso all'idea di un'arte di regime, ritenendo che lo Stato non potesse dettare le norme relative ai temi ed al linguaggio dell'arte, che doveva essere necessariamente libera. L'opera Uomini in treno, in antitesi con la retorica del fascismo, è accettata al II Premio Bergamo da una prestigiosa e severa giuria composta da nomi eccellenti, tra i quali Giulio Carlo Argan, Leonardo Borgese, Achille Funi, Ottone Rosai; 535 (di 374 artisti) le opere di pittura prese in esame; ne furono accettate per la mostra 107 di 95 artisti e tra loro figurava il dipinto del cremonese (unico) Alfredo Signori; i maggiori premi in palio andarono a Mario Mafai, a Donato Frisia e a Renato Guttuso. L'anno successivo, 1941, uscirà dal Premio Bergamo la famosa Crocifissione di Renato Guttuso. Tra gli anni '60 e '70 Signori si interessa sempre più alla pittura di materia, al senso del 'gesto'. Questa fase è un'altra importante esperienza che gli servirà ad accostarsi al 'particolare' di alberi, rocce, muri dai quali sa estrarre splendide immagini. Forse questo è il periodo più denso di lavoro, gli anni della maturità, dopo aver lasciato l'insegnamento nel 1968, lo rendono più disponibile per la pittura. Dal '70 in poi riprende anche la figura dell'uomo, alcuni dipinti di quegli anni appaiono nel '75 alla galleria di Renzo Botti. La vicenda artistica di Signori, pittore di fortissima tensione pronto agli impulsi ed anche al meditato tracciato selettivo, è talmente ricca che sarebbe interessante ripercorrerne il tracciato attraverso una grande mostra.
ELISABETTA QUINZANI
(La Provincia - 25 febbraio 2009)